Oggi siamo tutti autori, parliamo con leggerezza di quel che “pubblichiamo”. E “pubblichiamo” (sì, le virgolette sono d’obbligo) con facilità.

Un attimo, però.

Che cosa significa, esattamente, scrivere? E – di conseguenza – che cosa vuol dire, esattamente, pubblicare?

Non basta saper scrivere per scrivere in maniera professionale. Non confondiamo.

Inanellare parole è una cosa, e di per sé non è un affare complicato. Levigare lo scritto, però, è tutt’altro mestiere. Scrivere è un mestiere come qualunque altro, non diverso dal panettiere o dal pilota o dal notaio: richiede lunghi studi, riflessione, bravi maestri e soprattutto tanta pratica. Tanta pratica. Non c’è altra strada che scrivere per imparare a scrivere. E va fatto tutti i giorni.

Io scrivo per mestiere dal 1996 (no, in realtà era prima, ma si sa che nei primi anni di qualunque cosa le cose possono non essere del tutto chiare e cristalline), e mi sono preparato a fare questo da quando facevo seconda media. Sì, dai miei tredici anni ho nei fatti scritto tutti i giorni. Poche storie, dammi un tema e un obiettivo e io saprò trovare le fonti corrette, metterle insieme, fare le opportune collazioni, amalgamare il tutto e tirare fuori uno scritto – un post, un articolo, un libro, è lo stesso – che risponda ai bisogni del committente. Scrivere in maniera professionale è questo. Ed è, appunto, un mestiere che si apprende poco alla volta, non erompe all’improvviso come le ciliegie ma matura come il vino. Se vuoi scrivere devi esercitare l’arte della pazienza, ed essere pronto a sgobbare.

Lo disse bene Beppe Fenoglio:

Scrivo per un’infinità di motivi. […] Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
(Ritratti su misura di scrittori italiani, 1960)

E Cesare Pavese:

È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.
Se ti riuscisse di scrivere senza una cancellatura, senza un ritorno, senza un ritocco – ci prenderesti ancora gusto? Il bello è forbirti e prepararti in tutta calma a essere un cristallo.
(Il mestiere di vivere, 4 maggio 1949)

In un campo completamente differente, è lo stesso concetto espresso da Ben Hogan nella famosa intervista del 1983 a Ken Venturi, al minuto 8:46:

Very few times in my life have I laid off maybe two to three days, and it seemed like it took me a month to three months to get back those three days when I took a rest. It’s a tough situation. I had to practice and play all the time. […] My swing wasn’t the best in the world and I knew it wasn’t. And then I thought, well, the only way I can win is just to outwork these fellas.
[Poche volte nella mia vita mi sono allontanato dal golf giocato per due o tre giorni, e dopo mi sembrava ci volesse un mese intero, o anche tre mesi, per recuperare quei tre giorni di riposo. Sono situazioni complicate. Dovevo praticare e giocare sempre. […] Il mio swing non era il migliore del tour, e ne ero consapevole. E dunque conclusi che l’unico modo per vincere era quello di praticare più dei miei colleghi.]

Il mestiere è questo, in poche parole. Non si improvvisa, ci si arriva con un percorso lungo di prove e di errori. La scrittura non è genio, è sudore (traspirazione, non ispirazione): occorre, come dicono i tedeschi, “lernen mit Sitzfleisch”, ovvero imparare con la carne con cui ci si siede, imparare scaldando la sedia col fondo dei pantaloni. Non si tratta di lampi di genio, si tratta di mestiere che si compone in tempi lunghissimi.