Ho comprato un frigorifero
Ho insomma indossato il cappello del compratore.
Oh bella! E che cosa c’entra questo con le traduzioni fatte per vendere?
L’attinenza, dal mio punto di vista, è considerevole: perché le numerose interazioni compiute per arrivare all’acquisto mi hanno ricordato i passaggi che i nostri clienti, attuali o potenziali, compiono per arrivare alla scelta del servizio che meglio risponde alle loro esigenze.
Un parallelismo mi è stato subito evidente: non c’è stata nessuna interazione “umana”. Ovvero, come capita in una quantità grandissima di casi per innumerevoli settori, il dialogo è avvenuto “semplicemente” tra me e un sito (molti siti) tramite un paio di dispositivi.
Questo è per molti versi triste, ma è la realtà dei fatti: il negozio di un’attività, al pari di quello di una fetta significativa di fornitori di servizi alle aziende, è racchiuso dentro uno schermo.
E dunque le interazioni sono principalmente digitali (personalmente non perdo occasione per andare a fare visita ad un cliente, e ogni volta esco dall’incontro pieno di energie nuove; però nella fretta del lavoro di oggi questo è di rado possibile); ma – e qui c’è una differenza significativa rispetto al frigorifero, che nella sua essenza è una scatola il cui contenuto è indipendente dal venditore – il fattore umano nella vendita di servizi per aziende rimane prioritario.
Anche perché, a dirla tutta, un servizio non può per definizione essere una scatola, e la vendita di un servizio ha bisogno di assistenza, in genere sotto forma di una o più mail e/o telefonate.
Il venditore di un servizio ha un arma potentissima nelle sue mani: il tocco personale. Deve dunque essere bravo chi vende, dal momento che i servizi di fornitori differenti non possono per definizione essere sovrapponibili in maniera esatta.
Quindi chi vende traduzioni per aziende vende qualcosa in più di una scatola: vende un’esperienza personalizzata, vende un vestito fatto su misura, vende un caffè macchiato col cuore disegnato sopra.